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Articolo 18, non c’è relazione fra superamento 15 dipendenti e sviluppo delle imprese
Una recente protesta per la salvaguardia dell'articolo 18 (foto dal web)
L'intervento di Zilocchi pubblicato dal quotidiano Libertà

Articolo 18 e tutela dei lavoratori

Non c’è relazione fra sviluppo
e cancellazione dei diritti


di GIANLUCA ZILOCCHI


Molte parole sono state spese in questi giorni in merito alla proposta (in verità non nuova) del presidente della Camera di Commercio Giuseppe Parenti di innalzare la soglia dei 15 dipendenti per l’applicabilità dello Statuto dei Lavoratori (Legge 300/70).
Ultimo in ordine di tempo, l’imprenditore Stefano Perini il quale lamenta l’esplosione di incombenze burocratiche qualora dovesse superare questa soglia.
La sua azienda, stando a quanto dichiara nell’articolo pubblicato il 19 ottobre dal quotidiano Libertà, dovrebbe "ingrandirsi" e quindi superare stante la buona domanda e l’aumento degli ordini da lui stesso dichiarati nell’articolo in questione. Ma superare la soglia dei 15 dipendenti comporterebbe intralci tali da rendere impossibile lo sviluppo dell’azienda.
Premesso che verrebbe da chiedersi come facciano migliaia e migliaia di aziende ad esistere nonostante queste norme, vediamo di approfondire meglio e capire di che cosa stiamo parlando.
Lo Statuto dei lavoratori è legge dello Stato e quindi universale. Ad esempio, nessun lavoratore può essere ingiustamente licenziato anche nelle piccole imprese sotto i 15 dipendenti; tuttavia, lo Statuto disegna un diverso trattamento almeno su due punti specifici.
Il primo è quello riguardante le norme relative alle attività sindacali (titolo III della Legge art. 19-27). I lavoratori di aziende con più di 15 dipendenti hanno il diritto, ad esempio, di costituire una loro rappresentanza sindacale interna, di riunirsi in assemblea e comunque di esercitare una loro forma di organizzazione collettiva con tutele e agibilità.
Il secondo affronta il tema delle conseguenze derivanti da licenziamenti definiti inefficaci o invalidati da una sentenza di condanna da un giudice (art. 18).
Nelle aziende al di sotto della fatidica soglia, la sentenza del giudice favorevole al lavoratore comporta esclusivamente un risarcimento attraverso un’indennità compresa tra un minimo di 2,5, ed un massimo di 6 mensilità.

Nelle aziende dove trova invece applicazione l’art. 18 - quelle sopra i 15 dipendenti - il lavoratore si vede riconoscere il diritto al reintegro sul posto di lavoro o, in alternativa, il risarcimento del danno subito e a un’indennità pari a 15 mensilità.
E’ evidente lo spirito con cui, nel 1970, gli estensori della Legge pensarono ad un deterrente per evitare il dilagare di licenziamenti "facili" o discriminatori, lasciando un trattamento differenziato (e, se vogliamo, questo sì molto discutibile) per le piccole imprese.
Delle "incombenze burocratiche" di cui parla Perini non c’è traccia in queste norme dello Statuto dei Lavoratori.
Né di meccanismi onerosi o presunti impedimenti allo sviluppo delle aziende (che in questi 40 anni, per fortuna, non è certo mancato).
A meno che qualcuno pensi di ascrivere sotto queste voci quelli che in realtà sono diritti dei lavoratori: il diritto di non essere licenziati senza motivo, di poter prestare il proprio lavoro con dignità, senza la paura di ritorsioni o di condizionamenti, di poter discutere dei loro problemi e contrattare migliori condizioni lavorative.
Non si comprendono, e sono fuorvianti, le motivazioni di chi oggi lega la possibilità di sviluppo delle imprese alla cancellazione di questi fondamentali diritti: peraltro, dal 1970 ad oggi il mercato del lavoro ha conosciuto una sua evoluzione (anche se sarebbe più opportuno parlare di "involuzione"), fornendo alle imprese innumerevoli strumenti per gestire con flessibilità estrema e, purtroppo, precarietà intrinseca i flussi delle proprie attività.
Apprendistato, contratti a termine, a progetto, di inserimento, a chiamata, voucher, part time, agenzie di somministrazione: più che mercato del lavoro possiamo parlare di "Supermercato" del lavoro, con la "esse lunga", pardon maiuscola, intendendo con questo termine proprio la possibilità di accedere, esattamente come quando si comprano le provviste, in un bazar di contratti e scegliere volta per volta lo strumento più comodo e più utile.
E’ questa la ricetta vincente? Noi crediamo di no, e ci confortano le parole dello stesso Perini che, "costretto a ricorrere a lavoratori interinali" (che per inciso hanno un costo per le aziende più elevato rispetto ad un proprio lavoratore assunto a tempo indeterminato) ne sottolinea la mancanza dell’adeguata professionalità necessaria: un’inevitabile - e da sempre da noi contestata - conseguenza della rincorsa alla precarizzazione dei rapporti di lavoro.
Basta, quindi, con gli alibi: se si vuole accelerare ulteriormente il processo di attacco ai diritti dei lavoratori in corso da anni lo si dica apertamente senza ricorrere a ragionamenti improntati a costi, burocrazia o amenità analoghe che finiscono solamente con l’offendere l’intelligenza di chi su questi temi lavora quotidianamente e conosce il reale significato di queste parole. Non sono pochi, a proposito, i rappresentanti del mondo imprenditoriali che in questi giorni, interloquendo con noi, hanno sottolineato l’inadeguatezza di queste proposte.
Se si vogliono sviluppo e crescita, si rivendichino politiche diverse in campo economico e sociale senza cercare scorciatoie, si pretendano equità, credibilità ed etica da parte di chi ha in mano le sorti di questo Paese.
Possiamo continuare ad aprire sette o otto aziende diverse, ciascuna con meno di 15 dipendenti "per non incorrere in burocrazia, costi e rigidità" come sostiene l’imprenditore in questione. Ma siamo proprio sicuri che ad un’impresa seria convenga ricorrere a questi giochetti?
Di una cosa possono rimanere tutti certi, la CGIL non abdicherà in nessun modo al proprio ruolo di difesa dei diritti dei lavoratori.

*Segreteria Cgil Piacenza
Responsabile Mercato del Lavoro